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COMMENTO DELLA COACH

GINEVRA WILDER

 

Un racconto di attualità, una protagonista che fa parte di una categoria umana oggigiorno considerata “invisibile”, una storia commovente.

Il lettore si affeziona a Elena, tifa per lei, teme per lei quando la donna scopre quel lenzuolo bianco che cela un’orrenda verità e sospira di sollievo quando l’epilogo rovescia le sorti della protagonista e il brano si conclude positivamente. Correttezza stilistica e grammaticale, originalità del racconto e talento dello scrittore rendono questo pezzo eccellente.

Racconto-Provino per contest letterario WritersXfactors 2014

Selezionato dal Coach del Contest

LA FONTANELLA

 

L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte.

«È ora di muoversi», disse.

La panchina di ferro dei giardini pubblici non era certo comoda come il suo letto di casa, tutt’altro, ma quelli erano altri tempi. Ora una casa non ce l’aveva neanche più e non poteva andare tanto per il sottile: prendere o lasciare. Una notte una panchina, un’altra notte un androne di un palazzo mezzo vuoto, un’altra notte ancora un marciapiede di una strada secondaria.

Raccolse le sue poche cose e raggiunse una fontanella per lavarsi. Poi prese la spazzola dalla sua sacca da viaggio e si pettinò i lunghi capelli neri per rendersi un po’ più presentabile. Aveva bisogno della toilette e per questo doveva chiedere in qualche bar. Il suo sorriso, in genere, le bastava per poter accedere senza problemi nell’esercizio commerciale. A volte, se era fortunata, riusciva anche a rimediare un cornetto con un bicchiere di latte caldo.

Le sue gambe la portavano di quartiere in quartiere, senza un preciso schema. L'importante era non rimanere troppo tempo nello stesso posto. Non voleva vedere gli stessi volti per troppi giorni, né che la gente facesse caso a lei e la scambiasse per una barbona.In effetti lo era, ma il fatto di non avere una “fissa dimora”, le dava come l’impressione che non lo fosse. I barboni, in fondo, stanno sempre nello stesso luogo, nella stessa panchina, nello stesso angolo di strada. Lei no. Lei si spostava ogni due o tre giorni al massimo. Chi le passava davanti, tirava dritto senza farci tanto caso, e poi, dopo qualche giorno, nessuno si ricordava più del suo viso, dei suoi capelli lunghi e neri, del suo sorriso.Erano ormai cinque anni che faceva quella vita, dopo aver perso il lavoro e la possibilità di pagarsi l’affitto. Ma una cosa non l’aveva persa. Quella non poteva togliergliela nessuno: la voglia di vivere.

“Ecco il bar”, pensò. “Ieri sono stati gentili, lo saranno anche stamattina. Poi cambio zona. Non voglio sembrare un parassita o una che si approfitta della gente”.

«Buongiorno, potrei usare il bagno per favore?», disse con un largo sorriso Elena al ragazzo del bancone.

Il giovane sembrò non fare caso a lei e, con aria distaccata, continuò a sciacquare alcune tazzine di caffè.

"Grazie, conosco la strada”, pensò tra sé.

Scese le scale che conducevano al seminterrato. Usò la toilette e si lavò meglio con acqua calda e sapone. Forse la cosa che le mancava di più era proprio il bagno: il non poter fare la doccia, gustando la sensazione dell’acqua che scorreva sul proprio corpo, le creme che usava dopo per idratare la pelle e il viso, i profumi e tutte quelle coccole che si fanno le donne per rendersi belle e uniche agli occhi del loro compagno.

Già, il compagno. Chissà che fine aveva fatto Davide. Il suo fidanzato non era mai stato un tipo affidabile. Dopo due anni di convivenza, quando Elena perse il lavoro e dovette lasciare l’appartamento, lui tornò a vivere con i genitori. Poi pian piano sparì dalla sua vita, lasciandola sola ad affrontare un’esistenza sempre più misera e disgraziata.

Mentre era pervasa da questi pensieri, i suoi occhi si bagnarono di lacrime.Avrebbe mai più avuto una vita normale? Un lavoro? Una casa? Cercò di tirarsi su e di scacciar via certi pensieri e, dopo essersi lavata il viso, si guardò allo specchio e disse alla sua immagine riflessa: «Elena, tu ce la farai. Uscirai da questa fogna di vita. Sì, risorgerai dalle tue ceneri.»

Detto questo, si ricompose, tirò fuori l’aria dai polmoni e risalì le scale.

Il barman stava facendo cappuccini e caffè agli avventori ed Elena, con passo lieve e lo sguardo rivolto al pavimento, cercò di uscire senza dare troppo nell’occhio.Passò accanto ad un signore anziano seduto a un tavolino, che sorseggiava lentamente un latte caldo, quando questo la chiamò per nome.

«Elena!»

Lei si fermò, stupita che qualcuno la chiamasse in una zona della città che frequentava da appena un paio di giorni. Chi poteva conoscerla? Chi poteva sapere il suo nome? Quel signore non aveva neanche vagamente un'aria familiare. Un vecchio vicino di casa? Un collega di lavoro di cui aveva perso il ricordo? Comunque si fermò accanto al tavolino del tizio e gli rispose con voce gentile.

«Sì? Mi dica. Ci conosciamo?»

«Siediti, per favore. Devo parlarti.»

Elena era un po’ titubante, però alla fine accettò l’invito di quel signore e si sedette.

«Vuoi bere del latte caldo?»

«Ehm… se per lei non è un disturbo, volentieri. Grazie mille.»

«Prendi, bevi.»

Un secondo bicchiere di latte caldo era lì sul tavolino, solo che Elena non si era accorta che il barista l’avesse già portato. Rimase un attimo perplessa, poi lo prese e iniziò a bere, passandosi la lingua sulle labbra per leccarsi la schiuma che sicuramente le aveva lasciato il latte.

«Mmh… buono. Ancora grazie, signore. Posso sapere il suo nome e come fa a conoscere il mio?»

«Ti conosco da un po’ di tempo a dire il vero. Diciamo… da trentacinque anni?»

Un istante dopo, entrarono nel bar due poliziotti e cominciarono a fare domande. Si rivolsero al ragazzo dietro al bancone e gli chiesero se avesse notato qualcosa di strano nel marciapiede di fronte. Poi gli dissero che avevano rinvenuto una ragazza morta vicino alla fontanella, all’interno del giardino pubblico, proprio dall’altra parte della strada. Il ragazzo faceva di no con la testa e alzava le spalle, come a dire che lui non aveva né visto né sentito nulla.

Elena, invece, si fece sempre più interessata alla conversazione e rivolgendosi all’anziano di fronte gli disse sottovoce: «Io vengo dai giardini qui di fronte e poco fa mi stavo proprio lavando ad una fontanella. Anche io non ho visto nulla di strano però e… ma, mi scusi, diceva che mi conosce da trentacinque anni?»

«Sì, esattamente.»

Elena si alzò confusa e uscì lentamente dal locale, dirigendosi con passo incerto verso quella fontanella. Vide un corpo coperto da un lenzuolo bianco e vicino, una sacca da viaggio come la sua. Fu inorridita dalla coincidenza e fu tentata di tornare nel bar a finire il suo bicchiere di latte caldo. Invece si fece forza e avanzò ancora di qualche passo. Vide le scarpe della ragazza morta e notò che erano identiche a quelle che portava lei. Si avvicinò ancora, senza che nessuno la fermasse o che si accorgesse della sua presenza, quindi si inginocchiò di fianco al corpo e scostò leggermente il lenzuolo, in modo che potesse vedere il viso della ragazza.

Rimase sconvolta nel vedere che la giovane che giaceva a terra era proprio lei. Fuggì da quell’orrore e si rintanò di nuovo nel bar, piangendo. Si sedette al tavolino, dove l’anziano signore finiva di bere il suo latte. Elena, con le mani sul viso per coprirsi le lacrime, lo implorò: «La prego, mi dica cosa succede.»

«Elena, sei pronta per venire con me? Lassù ti aspettano.»

«No, ti prego, no! Non ancora, ti prego.»

«Allora va’! Sbrigati! Fai in fretta.»

Improvvisamente il lenzuolo bianco sembrò prendere vita, tra lo stupore dei presenti che osservavano la scena. La ragazza a terra se lo tolse di dosso e pianse, girandosi su un fianco e guardando l’anziano signore che sorrideva davanti all’entrata del bar.

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